Interview by Monica Ruocco, Published in Il Manifesto
APERTURA | di Monica Ruocco
MEMORIE ROMANZESCHE DAL LIBANO DI DOUAIHY
IN ARRIVO a Mantova
Oggi sul palcoscenico del festival l’autore di un singolare testo autobiografico, Quando verrà la rivoluzione avremo tutti lo skateboard, uscito di recente per le edizioni nottetempo. Tra gli appuntamenti di domenica, quello con il libanese Jabbour Douaihy, di cui Feltrinelli ha appena pubblicato il romanzo Pioggia di giugno
Ancorato alla rilettura della guerra civile che ha dominato la vita del Libano tra il 1975 e il 1990, il romanzo di Jabbour Douaihy – appena pubblicato da Feltrinelli con il titolo Pioggia di giugno, nella bella traduzione di Elisabetta Bartuli – esamina i fatti della storia ruotando intorno alla vita di Elia, un uomo nato nel 1957, nove mesi dopo il massacro tra faide maronite di cui rimane vittima suo padre. Da questo episodio sanguinoso si avvierà il conflitto tra le due principali famiglie cristiane del villaggio, situato tra le montagne nel nord libanese, quelle montagne da cui anche l’autore proviene. Dopo aver trascorso la maggior parte della vita all’estero, Elia decide di tornare per indagare su quei fatti ormai per lui lontani e raccontare l’origine della guerra civile libanese.
Lei ha scelto di far partire la storia che sta alla base del suo romanzo da un fatto di sangue, una lotta tra famiglie per il possesso di un piccolo spazio tra le montagne, che ebbe luogo nel 1957. Come mai questa scelta?
Sono nato in un luogo dominato dalla guerra tra clan, e di questa guerra tanto io che i miei genitori, i miei fratelli e le mie sorelle abbiamo patito le conseguenze, che si riverberavano in tutte le nostre scelte, quelle relative alla casa, ai nostri spostamenti, alle persone da frequentare. La mia è una grande famiglia maronita del nord del Libano, parte in causa di un conflitto all’ultimo sangue basato su questioni di rivalità, di potere, di alternanze di solidarietà e di esclusione. Il sanguinoso regolamento di conti da cui prende avvio il romanzo, che ebbe luogo nella chiesa di Meziara nel 1957, diede inizio alla lunga «guerra civile» locale e interfamiliare i cui caratteri si sarebbero poi riprodotti nel conflitto più esteso che, dal 1975, avrebbe coinvolto tutto il Libano. Dunque, per me, l’episodio di cui parlo funziona come una sorta di microprova generale di quanto sarebbe accaduto in seguito. Ho sempre avuto questa storia nel cuore, se n’è sempre parlato tanto attorno a me, conosco i figli delle vittime, le donne che hanno portato il lutto fino al giorno della loro morte.
Nel Vicino Oriente comunità etniche e religiose diverse hanno convissuto da sempre, eppure lei nel suo romanzo esprime una forte denuncia verso ogni forma di comunitarismo. Quando è iniziata l’esasperazione delle istanze settarie?
Non sono sicuro che le diverse comunità confessionali o etniche siano riuscire mai a convivere nel Vicino Oriente. Tuttavia, non posso fare a meno di arrendermi all’evidenza che mi dice come il regime parlamentare instaurato ai tempi del mandato francese, malgrado (e a causa) del minuzioso bilanciamento nella ripartizione dei poteri, non sia riuscito a ridurre le fratture tra le comunità. Dai tempi in cui i viaggiatori nel Levante e gli orientalisti definivano le diverse comunità del Libano come «nazioni», la riproduzione dei rapporti di solidarietà tra i clan si è quasi istituzionalizzata e il passaggio a uno Stato egualitario basato sulla cittadinanza è stato sempre rimandato.
Il suo è un romanzo che si propone di inseguire la verità dei fatti: lei crede che la letteratura possa avere un ruolo significativo nel raccontare versioni della storia diverse da quelle tramandate ufficialmente?
In Libano si è ottenuto il consenso su un’amnesia volontaria come espediente per rimettere insieme i pezzi del paese, inoltre, alcuni episodi della guerra civile sono stati sepolti in altrettante amnistie, dunque la narrativa resti lo strumento privilegiato per inseguire la verità, soprattutto quando manca una cornice di riflessione sulla memoria e sul perdono. Dopo la lezione di Mahfouz, e grazie all’attuale fortuna del genere romanzesco, gli autori arabi che vivano nel Darfur oppure a Riyad, al Cairo o a Ramallah, combattono la vulgata pseudo-statale o quella islamica, per testimoniare – al di là di ogni onere ideologico – le trasformazioni profonde di un contesto che oscilla tra transizione e lacerazione, in una sorta di guerra santa quotidiana.
Come si è documentato per procedere alla costruzione della storia e al disegno dei personaggi?
Non c’è mai stata una versione ufficiale dei fatti che ho raccontato, perché al tempo vennero insabbiati grazie a una amnistia generale varata dal governo, e dunque la giustizia non se n’è mai interessata più di tanto. Quando ero giovane ho sentito tutte le versioni possibili su quanto è accaduto: ho ascoltato racconti sugli ultimi atti di eroismo e le accuse reciproche di codardia, ho imparato come circolavano i nomi dei cecchini nascosti nel confessionale o nella sacrestia. Poi ho optato per una narrazione a 360 gradi, che fosse in grado di ricostruire tutte quelle versioni esasperate, dando voce a tanti testimoni di tutte le età, attingendo ai miei ricordi infantili, individuando come filo conduttore di questa «indagine» romanzesca il ritorno del protagonista che, a sua volta, cerca la verità riguardo l’omicidio del padre. Perciò ho deciso di riportare nel romanzo il tono di alcuni articoli dell’epoca, di alcuni «discorsi» storici decisamente ingenui o di teorie antropologiche «illuminate», e vi ho aggiunto piccole storie parallele, ritratti che fanno da contrappunto al racconto principale. L’impresa più difficile è stata, dunque, quella di garantire una certa unità al testo.
Lei ha dedicato il libro a Samir Kassir, che sostenne la fine della tutela siriana sul Libano e la causa palestinese, prima di morire ammazzato da una autobomba a Beirut. Proprio lui affermò che tra il 1975 e il 1990 Beirut era stata «fuori dalla vita»: ma, nonostante la guerra, il Libano ha sempre ospitato un dibattito culturale estremamente vivace. Oggi è ancora così?
Da tempo rifugio per esuli e oppositori delle dittature militari fiorite nel mondo arabo dopo la «nakba» palestinese nel 1948, il Libano ha progressivamente perso quel ruolo, in particolare a causa dei conflitti armati e della dominazione siriana. Nonostante quella che Samir Kassir chiamò la «primavera» incompiuta, quella del marzo del 2005 in cui ci siamo illusi sulla rinascita della libertà e della democrazia, il Libano è sembrato poi incline a importare modelli totalitari e oscurantisti: penso alla hezbollahizazione della comunità sciita, oppure al contagio dell’islamismo sunnita in alcune aree povere del nord. Ma Beirut si sforza comunque di mantenere un certo margine di libertà di espressione nei suoi giornali e nei media, portando un grande contributo all’editoria araba.
La narrativa araba, e quella del Vicino Oriente, in particolare, è stata sopraffatta, negli ultimi decenni, dagli avvenimenti politici che hanno interessato la regione. Con quali conseguenze, secondo lei?
Il romanzo arabo non può che riflettere la «densità» dei confronti nazionali (e nazionalisti), comunitari, sociali o culturali che agitano il Vicino Oriente. L’essere arabo è una sorta di stimmata che oggi il romanzo esprime portando con sé l’esperienza interiore dei singoli e quella generale di una cultura che si affaccia alla globalizzazione scontando forme di resistenza più evidenti che altrove. Certo, la regione in cui vivo è esposta da secoli a venti contrari e, senza una soluzione equa del problema palestinese, credo che l’avvenire sarà molto simile al presente.